26 Giugno 2025

Stefano Minnucci

Esperienza, terra rossa e divertimento: viaggio nell’accademia “green” di Corrado Barazzutti

Alla Barazzutti Academy le giornate iniziano presto, con i bambini in campo concentrati, ma sorridenti, e la polvere rossa che si alza a ogni loro balzo. In mezzo ai ragazzi, con un cappello di paglia da pescatore, completino bianco e un occhio attento per tutti, c’è Corrado Barazzutti: uomo di Davis, ex n. 7 del mondo, campione che ha calcato i centrali più prestigiosi, ma che oggi piega le ginocchia per indicare ai più piccoli come colpire la palla.

Dispensa consigli e frasi a effetto, come un fiume in piena, senza stancarsi mai. Ed è giusto sottolineare con quanta empatia e dedizione lo faccia, perché non è affatto scontato per un campione del suo calibro sudare e non fermarsi nemmeno un secondo, sotto il sole cocente di fine giugno, per trasmettere ai suoi allievi la passione di questo magnifico sport.

“Umiltà e lavoro”, è il mantra che ripete a ognuno, senza rincorrere per forza la vittoria (almeno per ora), ma imparare il gesto corretto, capire la geometria del campo, riuscire a divertirsi muovendo la palla con intelligenza. È l’eredità di una carriera illustre messa ora a disposizione dei bambini, perché – dice – «solo se ti diverti davvero il tennis ti conquista per sempre».

Barazzutti accompagna i suoi allievi più piccoli passo dopo passo: ne corregge l’impugnatura, inventa giochi, applaude quando un colpo finalmente “esce” come deve. E ottiene il massimo da quelli più grandicelli che frequentano l’accademia, alcuni dei quali spiccano per bravura e già sembrano dei campioncini pronti per affrontare il circuito.

La scuola si trova ai margini della riserva naturale di Decima, a dieci minuti dall’Eur, in una zona tranquilla e immersa nel verde. “Volevo fare qualcosa che mi è sempre piaciuto: insegnare ai bambini”, ci racconta l’ex campione di Davis in una lunga chiacchierata.

 

Partiamo dalle ragioni che l’hanno spinta ad aprire questa nuova accademia: che cosa cercava dopo tanti anni da coach federale e capitano di Davis e Fed Cup? 

«Se torno indietro a trent’anni fa, quando fondai forse il primo tennis college in Italia, l’idea era creare una struttura “all’americana”: foresteria, scuola pubblica interna, palestra, spogliatoi, campi di superfici diverse, uno staff che seguisse i ragazzi anche sul piano psicologico. Ci riuscimmo: molti genitori mi affidarono i figli per sei-sette anni, e da lì uscirono giocatrici anche delle prime venti posizioni del mondo.

Poi il lavoro nella Federazione: prima tecnico nazionale, poi capitano di Coppa Davis e Fed Cup, quindi coach di Schiavone, Fognini, oltre a seguire giovani come Luzzi e tanti altri. È stato un percorso esaltante, ma quando nel 2021 si è concluso ho avvertito un’esigenza precisa: volevo tornare a insegnare ai bambini. 

Quali sono gli obiettivi del progetto? 

“Trasmettere un metodo riconoscibile, vorrei che un osservatore potesse dire ‘si vede che quel bambino viene da lì, ha i colpi impostati in un certo modo’.

Non dev’essere una fabbrica di campioni a tutti i costi; ma un posto dove ogni allievo, qualunque sia il suo potenziale, possa imparare a giocare bene a tennis crescendo in un ambiente pulito che gli trasmetta valori forti. Mi piacerebbe far sapere che nella mia scuola ci prendiamo cura dei bambini fin dall’inizio, da quando li portano all’età di 5-6 anni. Li seguiamo in un percorso sotto il punto di vista tecnico e personale, cerchiamo di stargli vicino e instaurare con loro un rapporto affettivo; ci impegniamo, tantissimo, a correggerli tutti i giorni per farli giocare il meglio possibile a tennis. E vogliamo vedere un risultato.

Da quale età si inizia a fare sul serio, quando si parla anche di tattica e schemi di gioco, quando un bambino deve cominciare ad assimilare certi concetti? 

«La tattica e la strategia – intese come scelte e soluzioni da adottare in campo – iniziamo a introdurle quando i bambini cominciano a fare le prime partite. Nella fase iniziale, durante l’apprendimento, il focus è soprattutto sul farli giocare colpendo la palla con un minimo di direzione. Si cerca ad esempio di evitare che giochino troppo spesso verso il centro del campo, che è una zona generalmente meno efficace. E anche se siamo ancora nella fase tecnica, cominciamo a dare loro indicazioni semplici sulla direzione, così da costruire una base utile per il futuro. 

Quando poi il bambino acquisisce un minimo di controllo sulla palla, si può iniziare a parlare delle prime scelte: dove colpire, come costruire il punto, quali sono le opzioni più efficaci. Si parte da concetti molto semplici, come ad esempio: se costringi l’avversario a spostarsi verso il suo dritto e poi ti arriva una palla comoda al centro, conviene giocarla dalla parte opposta. Questi sono i primi rudimenti tattici. Poi, con la crescita e l’esperienza, il gioco si fa più complesso: aumentano le variabili e si sviluppa un tennis con più sfumature tattiche. Il tutto senza scordare mai la regola di base: divertirsi in primis. Perché solo se si innamorano del gioco riusciranno a reggere le ore di allenamento quotidiano che servono in seguito».

Com’è strutturata la giornata tipo a Castel di Decima? 

«Alle nove in punto si va in campo. Ogni ragazzo si allena due ore al mattino e due ore al pomeriggio e la struttura degli allenamenti non è rigida, ma viene sempre costruita a partire dalle necessità specifiche del singolo giocatore. Sul campo si lavora su vari aspetti: tecnica, tattica, strategia. Si allenano le zone utili del campo, si lavora sulla consistenza, sulla regolarità, sulla solidità mentale (ad esempio attraverso esercizi di palleggio prolungato, dove l’obiettivo è non sbagliare per tanti scambi consecutivi). Anche la parte atletica chiaramente è integrata nel lavoro, con esercitazioni mirate. 

E tutto questo non si esaurisce in una singola sessione: si lavora su un progetto mensile, con obiettivi chiari e progressivi, e alla fine del ciclo si valuta, si ricomincia e si alza il livello. Nel pomeriggio invece si gioca di più, si fanno punti, si disputano match. È il momento in cui si cerca di trasferire in partita quello che è stato costruito al mattino, lavorando nello specifico sulle scelte, sulle situazioni reali di gioco: quando usare un servizio in kick, quando lo slice, come gestire un momento chiave del match, e così via».

Un genitore arriva carico di aspettative: che cosa gli dice come prima cosa?

«Di avere fiducia, ma restare sempre con i piedi per terra. Capisco che ci sia entusiasmo: spesso chi viene da me lo fa perché conosce il mio percorso, sa che ho allenato giocatori di alto livello e che ho ottenuto risultati. Ma il mio consiglio è sempre lo stesso: non aspettarsi miracoli. Non sono un mago, non ho poteri speciali. Quello che posso fare – e che faccio ogni giorno – è mettere a disposizione tutta la mia esperienza, la mia passione e il mio impegno per aiutare il ragazzo a esprimere il suo massimo potenziale. Questo è il mio lavoro: tirare fuori il meglio da ogni atleta. 

Dico sempre: io ci metto tutto. Mi metto a disposizione, ci credo. Ma serve lo stesso impegno anche dall’altra parte e il ragazzo deve mettersi in gioco, accettare il lavoro duro, affrontare le difficoltà. Perché il percorso sarà lungo, faticoso, e pieno di ostacoli. E non esiste miglioramento senza fatica e senza la capacità di superare i momenti difficili. Solo così, insieme, possiamo costruire qualcosa e, magari, raggiungere dei risultati importanti».

Il percorso di crescita è lungo e faticoso, si diceva. Ma quanto è importante, soprattutto nei primi anni, dosare bene l’allenamento per evitare che un bambino si stanchi o perda la motivazione? 

«Beh, quando si parla di bambini, il punto centrale non è limitare l’allenamento, ma far sì che il tennis resti un piacere. Nella fase tra i 6 e i 12 anni – anche se a 12 possono sembrare già grandicelli, non lo sono ancora davvero – il nostro compito principale è trasmettere passione, farli giocare per il gusto di farlo, per il piacere di stare in campo. È questo il primo step fondamentale. Il segreto è farli divertire giocando a tennis, non farli divertire mentre giocano a tennis. Sembra una sottigliezza, ma è una differenza enorme: il tennis stesso deve diventare la fonte del divertimento. Se riusciamo in questo, allora nasce la passione vera, quella che poi li porterà avanti negli anni.

Perché quando il tennis ti “prende”, quando scatta quella scintilla, il percorso diventa naturale. A quel punto, bisogna solo accompagnarli nella crescita, nel passaggio dall’essere bambini a diventare ragazzi, e poi adolescenti. Solo in quel momento, con più maturità, possiamo iniziare a parlare di disciplina, di impegno, di autodisciplina sportiva».

Il tennis è anche un veicolo di valori, come ad esempio la correttezza. Penso, ad esempio, al rispetto, come in quel famoso episodio di Connors che venne nella sua parte del campo per cancellare il segno. Lo racconta mai ai suoi ragazzi?

«Credo molto nei valori da trasmettere. Anche se penso che questo sia un dovere di tutte le scuole tennis e, più in generale, di qualsiasi ambiente sportivo che lavora con i giovani. Il primo valore da insegnare è il rispetto. Se imparassimo tutti a comprenderlo e a metterlo in pratica, staremmo meglio non solo nello sport, ma anche nella vita. A questo si aggiungono altri valori fondamentali come l’umiltà, la disciplina, l’amicizia.

Sono principi che, se trasmessi con coerenza e convinzione, contribuiscono a creare un ambiente solido, sano, con un forte senso di appartenenza. È questo che rende un gruppo, una scuola, una squadra davvero forte: la condivisione di valori prima ancora che di risultati. Ecco perché è così importante il ruolo delle persone che stanno in campo con i bambini ogni giorno – maestri, allenatori, educatori. Sono loro a fare la differenza, non solo sul piano tecnico, ma soprattutto umano».

Diventare professionista costa: come si finanzia oggi un giovane?

«È come lanciare una start-up. Servono investitori: genitori, sponsor, Federazione, oppure un pool di privati che creda in te. Musetti ottenne 350 000 € da Nike a 14 anni; altre famiglie, come il papà di Cobolli, hanno investito di tasca propria per anni. A volte la Federazione ti sostiene; a volte uno sponsor scommette, altre volte devi autofinanziarti. È un investimento ad alto rischio: puoi diventare Sinner o puoi fermarti nei Futures. Ma fa parte del gioco».

Quanto pesa avere un team completo – coach, preparatore, fisioterapista, nutrizionista? 

«Pesa economicamente, ma fa la differenza. Il team ti evita errori in allenamento, alimentazione, programmazione. Senza un supporto competente rischi di sprecare anni».

A proposito di talenti giovanissimi, spesso noi giornalisti cerchiamo il “nuovo fenomeno” fin troppo presto, come sta accadendo ad esempio con Federico Cinà. Non c’è il rischio che tutto questo stress mediatico possa finire per danneggiare quei ragazzi?

«Questo è un punto fondamentale. La differenza la fanno le persone che stanno attorno ai ragazzi, perché sono loro che devono creare una sorta di “scudo” protettivo. Prendiamo proprio il caso di Cinà: è cresciuto in una famiglia che lo ha sempre protetto, che non lo ha mai messo sotto i riflettori prima del tempo. È venuto fuori solo quando era davvero pronto, senza pressioni esterne. Io, ad esempio, mi ricordo bene di lui da bambino. Lo chiamavo “Pallino” (come lo chiama anche il padre, Francesco). Era già bravo, si vedeva che aveva talento, ma la sua famiglia è sempre rimasta riservata, equilibrata. Il padre non ha mai fatto proclami, mai alimentato aspettative eccessive. Diceva semplicemente: “Gioca bene”. E basta.

Ed è proprio questo atteggiamento che gli ha permesso di crescere con i piedi per terra. Il rischio, altrimenti, è che un giovane venga travolto troppo presto dall’entusiasmo, dalle aspettative, dalle pressioni. E questo può creare dei blocchi, può rovinare un percorso che dovrebbe essere graduale. Quindi sì, c’è bisogno di tempo, di pazienza e soprattutto di equilibrio. I talenti non vanno cercati a tutti i costi: vanno lasciati crescere».

Chiudiamo con un frase-manifesto che vorrebbe lasciare ai suoi ragazzi. 

«Ricordate sempre che non c’è progresso senza errori. Accettateli, imparate da essi, e superateli: è l’unico modo per diventare migliori, nello sport e nella vita».